mercoledì 6 febbraio 2013

Lo straniero che venne dal mare


TITOLO ORIGINALE: Swept from the Sea

REGIA DI: Beeban Kidron

GENERE: Drammatico

PAESE E ANNO: Canada, 1997

VOTO: 9


TRAMA:Un racconto di solitudine e straniamento dalla società scritto e firmato da Joseph Conrad nel 1901 si trasforma in un film di grandi sentimenti, emozioni e paesaggi. Un film sicuramente drammatico, ma non per questo meno emozionante o indimenticabile.
Non voglio fare adesso un’analisi del racconto in sé, di quanto sia stata fedele la trasposizione cinematografica o meno, ma sicuramente mi ha stupito non averne sentito parlare prima.
Spassionatamente è una storia davvero deprimente: un giovane russo, Yanko (Vincent Perez), sta navigando verso le Americhe, quando una tempesta rovescia la sua nave sulle coste del Kent, e lui è l’unico sopravvissuto (e già qui le premesse sono quello che sono). Non sa una parola di inglese, viene considerato un pazzo, un mentecatto, e viene maltrattato, sfruttato e picchiato. Insomma, lo straniero in terra straniera isolato da tutti, tranne che da una ragazza di nome Amy Foster (Rachel Weisz), unico essere umano che gli dimostra cortesia e umanità. Anche Amy è un’emarginata, considerata da tutti diversa e sicuramente strana. La giovane ama i doni del mare, quello che l’oceano le porta, tesori meravigliosi e strani, tesori come il Yanko.
Dopo quello che, almeno a me, sembra un tempo decisamente lungo, il medico del paese, unico personaggio colto con la mentre più aperta rispetto ai rozzi e superstiziosi paesani, intuisce che il ragazzo non è mentecatto, ma semplicemente straniero. Così poco alla volta gli insegna l’inglese e i sentimenti di Yanko per Amy possono essere espressi.
Tuttavia, pur avendo superato finalmente la barriera linguistica, rimane il problema dell’ignoranza dei compaesani che non solo con malignità ma con crudeltà e cattiveria smisurate, si impegnano attivamente nella distruzione dell’esistenza di Amy e Yanko, quando tutto ciò che chiedevano era di essere lasciati in pace a vivere le loro veramente semplici esistenze insieme. La storia è difficile, come la vita è malevola talvolta, solo che, nel momento che cattiveria e difficoltà di mescolano alla crudeltà dovuta all’ignoranza e all’egoismo, non esiste speranza di lieto fine e anche una semplice malattia può portare alla tragedia.
Non c’è lieto fine in questa storia, solo schiettezza e una cruda realtà. E tuttavia ho trovato delle verità incredibili, come quella espressa in chiusura dal medico che finalmente capisce, e aiuta gli spettatori a comprendere che quello che noi abbiamo visto come un dramma perché è finito, per chi l’ha vissuto è stata semplicemente una gioia che sia esistito.

RECENSIONE:In questo film ho visto l’Inghilterra dell’Ottocento, come credo l’abbiano vista coloro che l’hanno vissuta. Non mi riferisco ai pochi ricchi o alle grandi città, ma alla chiusura e alla piccolezza, in più di un senso, dei paesini isolati, dove i confini del paese erano, per moltissimi, i confini del mondo.
Non è la classica storia d’amore, tantomeno il racconto che si conclude in “vissero per sempre felici e contenti”, e tuttavia è una delle storie d’amore più belle che abbia mai conosciuto. Non c’è il lieto fine, mi pare di averlo chiarito ampiamente, e ogni volta che l’ho visto ho pianto di cuore. Ma non per la conclusione in sé, quanto per la felicità che hanno vissuto, anche nella loro estrema difficoltà e povertà, i due protagonisti.
Quando un uomo, mentre sta morendo da solo in una casa fatta veramente da quattro pareti e niente altro, trova la forza di credere e dire al suo amore “ricorda che siamo i più fortunati”, ci si pone delle domande e, magari, ci si rende conto quanta importanza si dia, spesso senza accorgersene, alle cose sbagliate.





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